Il coccio

coccio 1Per coccio intendo quello citato nel proverbio: “Chi rompe paga e i cocci sono i suoi”. E deve essere un coccio “stricto sensu”. Non esistono cocci di metallo, anche se si possono rompere e pagare cose di metallo.
Non esistono cocci di vetro: il lessico bassanese, infatti, possiede il vocabolo “zìnzeli”, apposta per indicarli. Un coccio è di piatto, di insalatiera, di brocca, di “cannata”, di “vasaretta”, di “concolina”. Questo dire copre la parte del Lazio che va dal basso Viterbese all’alta Ciociaria: la Buringia centrale. In breve significa che un coccio è “de coccio”.

Parlo del coccio perché ieri mentre davo du’ vangate a Montevergigno, n’ho trovo uno. De ’nzalatiera, robba bona: bianco, co’ ddu’ righette turchine. Una più ierta e una più fina.
Quando mi occupo di lavori pesanti, qualunque distrazione è benvenuta, purché serva a dimenticare la fatica. Così il coccio bianco e azzurro mi ha aiutato a preparare un po’ di terreno per seminare l’insalata.
Chissà chi ha mangiato in quel coccio? Chissà quante spaghettate, quante acquacotte e quante insalate di lattuga fresca ha contenuto? Magari ci hanno condito li lombrichelli e, a Natale, li maccheroni co’ le noce.

Mi piace pensare, vista la qualità del mio coccio, che abbia partecipato almeno ad una festa di fidanzamento, all’epoca in cui il pretendente si dichiarava affermando de volé’ piantà’ ’na cappannella sotto a’ la finestra della sua bella monteranese.
Se le cose andavano bene, in seguito veniva chiamato in casa e fatto accomodare su ’na ssejia, altrimenti il capo di casa chiedeva alla consorte de pijà’ e rivortà’ ’r callaro pe’ fa’ accommidà’ sto giuvinotto.
Col procedere delle schermaglie amorose e l’intensificarsi delle visite, al giovanotto poteva anche venir offerto un bicchier de vino ma… così: Tié’, ècchete la vasaretta; càcciotolo da te, ché la grótte è fonna e io ciò li dolor d’ossi. La botte è quella a mandritta. Lascia perde quella de fronte, ché c’è l’ammezzato e comincia a spuntà’ d’aceto. Richiude bene la cavola, ch’è peccato a fa’ sprecà’ la grazzia de Ddio. E quanno scappi su, dà ’n’arroncinata a’ la catena ’ntorno ar catorcio, ché s’è sfasciato ’r chiavestrello e ll’emo da fa’ riggiustà’ dar ferraro.
In seguito, accertate le possibilità economiche del pretendente, conosciutisi o rigeneratisi nell’amicizia i futuri consuoceri, veniva convocata la “convention” di fidanzamento. Questa toccava il suo acme in un pranzo in famiglia. Si attingeva da orto, pollaio, cantina, pertica del maiale. A lungo li lansagnòli s’aripittolàvono su le spianatore.
Naturalmente veniva usata la mejio tovajia e ’r mejio servizzio. Se, durante o dopo il pranzo, quarche piatto o quarche ’nzalatiera se scocciava, era tutt’allegria e si produceva il coccio per me; quello che mi aiuta a dissodare il terreno.
E ci siamo tornati… al terreno e alla vanga! Ggiusto so’ stracco! Meno male che deggià Madama allùcca! Dice ch’è pronto. Era propio ora de mette li piedi sotto ar tavolino e magnasse ’m piatto de minestra, che so… du’ frascarelli co’ du’ fojie de ’nzalata e bevéccese sopra ’m ber bicchier de vino!

Ho pensato come un mio avo. Queste ultime frasi dovevano essere scritte in lingua italiana. Ma… quando ti trovi su quella terra, con la vanga in mano, con la testa dietro le avventure d’un coccio, non è facile dare il giusto peso al numero di generazioni intercorrenti tra te e il tuo bisnonno. E allora… parli… pensi… e scrivi come Lui.

Francesco Varani

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